Non è un lavoro. Non è una vacanza. Il servizio civile universale un’esperienza di volontariato e servizio che permette ai ragazzi e alle ragazze di entrare in contatto con mondi diversi, spesso distanti da quelli che si vivono quotidianamente.

Il servizio civile universale è nato per favorire tra i giovani cittadini italiani la realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale previsti dagli articoli 11 e 52. In questo contesto, FOCSIV e i suoi soci (tra i quali CELIM) offrono a giovani tra i 18 ed i 29 anni l’opportunità di vivere per dodici mesi una occasione unica in Italia e all’estero.

Nei progetti all’estero, i volontari s’impegnano in attività di promozione dello sviluppo volte alla creazione di percorsi di pace, alla tutela dei diritti umani e al superamento delle condizioni di ingiustizia sociale in diversi ambiti, da quello economico e gestionale a quello socio-educativo e sanitario a quello rurale e ambientale. Per un anno si vive a contatto con le realtà con le quali lavora CELIM in Africa, Balcani, Medio Oriente. Si conoscono persone, si sperimentano modi di vita, si entra in contatto con culture lontane.

Nei progetti realizzati in Italia, i giovani hanno la possibilità di conoscere le problematiche del territorio, svolgere attività di sensibilizzazione, realizzare attività educative nelle scuole e vivere esperienze di condivisione dei valori civili. Sensazioni ed esperienze che rimangono nella memoria e fanno crescere.

CHI PUÒ PARTECIPARE AL BANDO?

Le domande di partecipazione al Servizio Civile possono essere presentate da tutti i cittadini maggiorenni, senza distinzione di sesso, che non abbiano ancora compiuto i 29 anni al momento della presentazione della domanda.

­­­QUALI SONO I REQUISITI PER PRESENTARE LA DOMANDA?

  • Cittadinanza
  1. Cittadino italiano
  2. Cittadino di altri Paesi dell’Unione Europea
  3. Cittadino non comunitario, ma regolarmente soggiornante
  • Avere un passaporto in corso di validità
  • Non aver riportato condanne

COME CANDIDARSI?

Nel mese di dicembre il Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio civile pubblica il bando con i progetti che verranno finanziati. Sul sito FOCSIV è possibile vedere tutti i progetti della federazione (tra cui anche i nostri). Una volta scelto il progetto ci si deve collegare alla PIATTAFORMA DOL. Ad essa si può accedere con lo Spid se si è cittadini italiani, residente in Italia o all’estero, oppure si può accedere con le credenziali se si è cittadino di un altro Paese europeo o uno straniero regolarmente soggiornante in Italia Sulla piattaforma DOL si può compilare la domanda facendo attenzione a inserire tutte le informazioni. In caso di errata compilazione è consentito annullare la domanda e presentarne una nuova fino a scadenza bando

QUANTE DOMANDE POSSONO ESSERE PRESENTATE?

La normativa prevede la possibilità di inoltrare una sola domanda, relativa ad uno solo dei progetti inseriti nel bando.

NON HAI TROVATO QUELLO CHE CERCHI?

Servizio volontario europeo

Il Servizio Volontario Europeo è un’esperienza di volontariato internazionale finanziata dalla Commissione Europea, rivolta a tutti i giovani legalmente residenti in Europa, di età compresa tra i 17 e i 30 anni.

Il programma permette di svolgere volontariato presso un’organizzazione o un ente pubblico, in Europa e nei Paesi dell’area Euromediterranea e del Caucaso, per un periodo che va da 2 settimane a 12 mesi.

CELIM è ente di accoglienza, non di invio: per svolgere il periodo di SVE presso la nostra struttura a Milano è necessario rivolgersi all’associazione Joint scrivendo a scu@celim.it.

Le testimonianze

Ci sono volte in cui è la vita a decidere per noi e, alla fine, tutto si rivela miracolosamente giusto. La mia esperienza di servizio civile è cominciata proprio così: con un progetto che ha scelto me e non viceversa. Il mio, infatti, è uno dei tanti – fortunati – casi dei ripescati, cioè di coloro che avevano richiesto un progetto ma sono poi stati chiamati per svolgerne un altro.  

Prima facciamo un breve passo indietro. Mi chiamo Cristina, ho 28 anni (già, proprio l’età limite per quest’esperienza) e di mestiere, fino al mio anno di servizio civile in Zambia, a Lusaka, lavoravo come avvocata. Certo, mi occupavo anche di diritti umani, ma negli anni sempre meno e la frustrazione era così tanta che un giorno ho deciso di candidarmi per il servizio civile, optando per un progetto da svolgere con una grande organizzazione internazionale, dato che mi sembrava più in linea con la mia professione. Però, subito dopo la chiusura delle candidature, ho capito che anche quella decisione era stata mossa dalla mia paura di cambiare strada, mentre la mia volontà più profonda e autentica era quella di buttarmi sul campo e in una realtà completamente nuova. Da lì, mi sono pentita amaramente e ho sperato di non essere scelta. Che felicità, e che sollievo, quando un giorno di aprile ho ricevuto l’email che diceva: “Idonea non selezionata”! E ho accantonato il capitolo servizio civile: dimenticato. Ripescaggi? Li avevo considerati, certo, ma mi ero ripromessa una sola cosa: Africa, mai. Poi, una mattina di fine giugno, sempre più affaticata dal mio lavoro, mi sono dimessa. Due ore dopo, ho ricevuto una telefonata. Era CELIM, una Ong che allora non conoscevo, e che mi proponeva un progetto in Zambia per l’esperienza di servizio civile. Quello che ho fatto è stato googlare “Dov’è lo Zambia?”, chiedere informazioni sul progetto nella sede di Lusaka, e accettare, senza neanche rifletterci su. Tuttora non so come sia successo, so solamente che doveva andare così.

L’estate mi ha vista navigare tra ondate di formazione e altre di burocrazia e vaccini. La formazione pre-partenza è stata essenziale non solo per comprendere le attività di cui mi sarei occupata una volta arrivata in Zambia e per capire cosa aspettarmi dalla città e dal Paese, ma anche per iniziare a conoscere i miei meravigliosi compagni di avventura e interrogarmi su timori, sfide e aspettative. La burocrazia è stata lenta e farraginosa, ma uno scoglio necessario per iniziare a familiarizzare con un concetto chiave di questa esperienza: tutto il meglio arriverà solo dopo ostacoli poco piacevoli e faticosi. 

Settembre è stato poi il mese della formazione residenziale con gli ultimi servizio-civilisti ancora in Italia, e il mese dei saluti. Nel mio caso, la formazione si è svolta a Roma e ciò ha coinciso con uno degli arrivederci più difficili: quello alla città del mio cuore. Sicuramente, rendersi conto di mettere tra parentesi quella che si credeva essere la propria vita reale per un po’ non è facile e staccarsi dai propri affetti pone di fronte a un altro enorme scoglio dell’esperienza di servizio civile: quello della lontanza dall’Altro, tema ricorrente nel corso dell’anno. Allontanarsi è difficile e fa paura, ci porta necessariamente a chiederci se le persone e le dinamiche che sono nella nostra vita rimarranno immutate (e no, non sarà così), se noi resteremo gli stessi (e no, non sarà così), e chi e cosa vorremo dopo, in un dopo che al momento della partenza neanche riusciamo a visualizzare. 

È soprattutto a questo che serve la formazione residenziale: ad affrontare, insieme a un gruppo di persone che vivrà un’esperienza simile, ma diversa, a decine di migliaia di chilometri di distanza nel mondo, temi che sono in subbuglio dentro di noi ma a cui fino all’incontro con queste anime affini non avevamo avuto il coraggio di dar voce. Poi, in un battito di ciglia, ci si ritrova tutti insieme in cerchio e si capisce che non si è soli in quelle paure che si ritenevano così piccole, banali, insignificanti; in quelle incertezze a cui non si riusciva a dare un nome; in quelle aspettative che si pensavano troppo grandi. E ciò crea legami che resteranno indissolubili, e che saranno l’ancora di salvezza per tutti i momenti di crisi (che sì, si presenteranno) di un’esperienza così intensa. Anche con dieci ore di fuso orario, anche tra quattro continenti diversi. Il filo non si spezzerà.

Alcuni ricordi della formazione pre-partenza rimarranno indelebili nella mia memoria: il primo, un fumetto visto nella stanza della formazione sulla differenza tra “Essere=Avere” e “Essere=Dare”. Questo è lo spirito di servizio con il quale io mi sentivo di partire e di voler vivere i miei mesi in Zambia: come scrivevo nel rispondere alla domanda sul “Cosa darai per ottenere gli obiettivi che ti sei preposta?”, la mia intenzione era quella di “Metterci il cuore, l’anima e tutta me stessa, con nuovi occhi per un nuovo mondo, entusiasmo, voglia di mettermi in gioco e curiosità, svincolandomi da ogni stereotipo”. Il secondo, il cartellone realizzato con le mie compagne di formazione, in cui descrivevamo per immagini l’approccio che avremmo utilizzato per apportare un “Cambiamento Futuro”: attraverso la metafora di una ballerina che sta sulle punte sopra un mappamondo, parlavamo di entrare in punta di piedi nella realtà che ci avrebbe accolte e ospitate, rispettandola, servendola e imparando ad accettarla con amore e attenzione verso l’altro da sé. Inserivamo, poi, una frase interrogativa: “Ma quante sono ancora le domande attorno a te?”, perché quando ci era stato chiesto cosa desiderassimo, la risposta di alcuni di noi era stata “Tornare con molte nuove domande, e alcune risposte”. Il terzo ricordo sono alcuni degli obiettivi scritti nella formazione svolta il giorno prima del volo di partenza: desideravo “Vedere un cielo diverso (ma uguale)”, poichè sapevo che sarebbe stato tutto metaforicamente capovolto, pur condividendo noi la stessa volta celeste; ancora, volevo imparare a dare un valore diverso al tempo e alle cose e ridimensionare “tutto” – che fatica, che ci è voluta, ma quanto è stato necessario; infine, sentivo il bisogno di alleggerirmi del superfluo – ci sto ancora lavorando, ma sto lasciando pezzi inessenziali di me qua e là, che forse sono più utili a chi li troverà lungo il suo cammino. L’ultimo, un post-it sul quale avevo scritto le mie paure, sempre il pomeriggio prima di partire: rileggerlo mi fa molta tenerezza e mi fa comprendere quanto fosse cruciale averle ben chiare allora, perché nel corso di un lungo anno (fantastico ma talvolta ostile) saranno oscure, pronte ad attanagliarci nei momenti di difficoltà, e ci metteranno di fronte a noi stessi, a nudo. Due sono quelle che mi saltano più all’occhio: la paura di non sapere chi sono e non sapermi ricostruire, e la paura di non voler tornare. Entrambe si paleseranno e si concretizzeranno: la prima perché quest’esperienza ci farà a pezzi, svelerà tutte le carte e lascerà a noi la libertà di ricostruirci come vogliamo – l’importante è capire che libertà è potere, e starà a noi decidere che forma donare a noi stessi; la seconda perchè nulla sarà mai più potente di questo anno, nella nostra vita, e – nel viverlo – saremo ben coscienti di non poterlo e non poterci più raccontare a chi ci conosceva, e non saremo certi che la realtà che prima ci accoglieva tanto comodamente sia ancora della taglia giusta per noi.

È con questo pesantissimo bagaglio – fardello! – emotivo che partivo, il 29 settembre, con il mio migliore amico ad accompagnarmi a Malpensa e tre dei miei compagni d’avventura ad attendermi in aeroporto (una dei quali avrebbe letteralmente preso sulle proprie spalle un po’ di questo fardello fin da subito), mentre il quarto ci avrebbe accolti a Lusaka. Il volo era condito da risate e lacrime, riflessioni sulle sliding doors della vita, e un’abbagliante Luna Piena mentre planavamo sopra Zanzibar – e pensavo “Chissà quando mai la visiterò”. Mentre atterravamo, l’aereo planava fino a toccare terra zambiana, e lo schermo diceva “0 km to unknown” – ed era proprio così che mi sentivo: tuffata a capofitto verso l’incerto, spaventata come non mai. Nel frattempo, la mia riproduzione casuale di Spotify faceva partire una canzone-capolavoro che fa così: “I lost myself on a cool, damp night / I gave myself in that misty light / Was hypnotized by a strange delight / Under a lilac tree” – e mi dicevo che io questi maledetti alberi lilla non li avevo mai visti in vita mia. 

E invece, subito la prima sorpresa: usciti dall’aeroporto, eccoli lì, i lilac trees che aspettavo da una vita intera pronti a darmi il benvenuto – i jacarandas. Che meraviglia. Ma chi si sarebbe aspettato di vedere questo colore in Terra d’Africa. Ero già innamorata.

Finalmente al completo, a Lusaka ci ha dato il benvenuto il nostro quinto compagno di avventura, arrivato un mese prima di noi, che avrebbe condiviso con me l’esperienza nella capitale. Dopo una settimana di formazione tutti assieme nel Paese, avremmo invece salutato a malincuore gli altri, che si sarebbero spostati a Chipata, città nell’Eastern Province dello Zambia. 

I primi mesi di scoperta sono stati una luna di miele: la città, un’enorme sorpresa, ricca di stimoli culturali e persone interessanti; il lavoro, così soddisfacente nell’equilibrio tra attività sul campo (con bambini e ragazzi in situazioni di vulnerabilità, tra cui bambini “di strada”, giovani con disabilità e minori in strutture penitenziarie) e in ufficio (ad esempio imparando attività relative alla stesura e al monitoraggio di progetti). Un grande choc è stato l’assoluta polarità di Lusaka, città con un quantitativo spropositato di abitanti, che non conosce praticamente una classe media e si divide tra sconfinati compound (che in Italia conosciamo come “baraccopoli”), in cui si vive anche in 10-12 persone in 8 metri quadri e con un pasto al giorno, e quartieri residenziali molto ben tenuti, pronti ad accogliere ricchissimi local ed expat. Come in molte città africane, il concetto di “centro” non esiste, né tantomento vi sono luoghi in cui poter passeggiare: camminare è semmai il mezzo di trasporto dei meno abbienti – vi sono poi i minibus (per i quali non esistono orari precisi né tratte esatte da seguire, ma si capirà la destinazione sentendo qualcuno urlare dal bus, che ospita il triplo delle persone per le quali ci sarebbe spazio – un po’ come l’Atac per i romani) e i servizi di taxi per chi può permetterseli. Camminare di giorno è dunque atipico, farlo di notte è poi assolutamente vietato, visto che il buio è assoluto e le strade molto pericolose. 

Fin da subito, comunque, la città ha reso possibile creare legami solidi sia con persone del posto che con altri volontari e tirocinanti. Con alcuni di loro, abbiamo condiviso alcune delle prime avventure che solo questo Paese può regalare: non dimenticherò mai quello che rimarrà per sempre tra i viaggi più belli della mia vita, al South Luangwa National Park. I miei primi safari, cuccioli di leone che si fanno coccolare dalla mamma, elefanti che si baciano di fronte al tramonto più bello della mia vita, mandrie di centinaia di bufali che ci vengono addosso in piena notte, e le stelle – quante stelle… il tutto dopo sole 12-14 ore di viaggio (condito dai cosiddetti “African Massages”, dossi continui che riducono la schiena in frantumi) su un piccolo van sul quale ci stringevamo in dieci! 

Nel frattempo, il lavoro si faceva sempre più coinvolgente: in particolare, il progetto riguardante bambini di strada e minori nelle strutture detentive mi teneva particolarmente impegnata, e mi consentiva di svolgere attività che includevano anche le visite ad alcune strutture detentive del Paese e gli “outreach” notturni. Durante questi ultimi, si prova a familiarizzare con i bambini e ragazzi di strada e creare un legame con loro, in maniera tale da avvicinarli, pian piano, all’idea che un’altra vita sia possibile, e portarli a un riavvicinamento alla loro famiglia d’origine (se valutato opportuno) o a un inserimento nei centri creati attraverso i nostri progetti, mediante i quali i loro bisogni principali sono tutelati e inoltre viene loro garantito l’accesso a una formazione di base, in modo da emanciparli attraverso la cultura. Uno di questi outreach ha cambiato la mia vita, benché io non abbia la presunzione di credere che abbia cambiato anche la vita della giovane donna che ho conosciuto quella sera: ci eravamo recati in uno dei miei posti preferiti, dove decine di ragazzi di strada si riuniscono ogni sera per le loro tipiche attività o anche per dormire. Questo luogo altro non è che un canale di scarico situato sotto un cavalcavia tra i più trafficati della città, e a me ha sempre ricordato una delle mie canzoni del cuore – “Under the Bridge”. Quella sera era diversa dalle altre, dato che con noi c’era anche una televisione locale a girare dei video per la promozione del nostro progetto. Una ragazza in particolare non aveva apprezzato quest’incursione, e io mi sono subito sentita magneticamente attratta da lei e dall’antipatia che aveva provato nei nostri confronti. Mi sono avvicinata e ci son volute due ore di chiacchiere per guadagnarmi la sua fiducia, finché non mi ha raccontato la sua storia di vita e confessato di essere incinta. Sentivo il bisogno di aiutarla e una connessione profonda con lei, ma non avevo mai incontrato qualcuno di tanto spigoloso. Così, ho fatto qualcosa che non avevo mai fatto: le ho raccontato la mia storia di vita. Ed è lì che ha abbassato le difese. Da quel giorno, si è rivolta solo a me, e quante volte sono tornata lì a cercarla e, preoccupata, non la trovavo. Finché una sera, prima di Natale, non ci siamo finalmente riviste nello stesso posto e ci siamo corse incontro urlandoci: “Where have you been?!”. Sapevo che mancava poco al parto, e mi ha detto che sarebbe stata disposta ad andare via dalla strada solo se fossi stata io ad aiutarla. Ma non potevo essere io, da sola, a farlo: non è questo il compito di noi volontari, che siamo una presenza volatile e di passaggio. Dunque, ho provato a spiegarglielo e a farle capire che anche i miei colleghi del posto, ben più esperti di me nell’ambito dell’assistenza sociale, meritavano la sua fiducia, e quel 14 dicembre lei ha accettato. Pochi giorni dopo, era al sicuro in una struttura per ragazze di strada, che la ha accompagnata nelle ultime settimane di gravidanza, fino al parto, e il 1° gennaio 2024 un bimbo gravido di speranza è nato. Non la dimenticherò mai, e spererò ogni singolo giorno della mia vita che la sua strada non sia più La Strada. Sono esempi come questo che a volte ci ricordano che, per quanto frustrante e demotivante possa essere vivere nell’ottica del servizio, ciò che conta è essere quella goccia nell’oceano, perché alla fine quello che tutti desiderano è essere visti per ciò che sono, essere amati nella loro autenticità: come recita la scritta di un bambino sulla porta di una delle abitazioni dei compound in cui lavoro, “I am. I love you Mum, I love you Dad, Do you love me?”.

Arrivato Natale, la stagione delle piogge era ancora atipicamente lontana, ma nel frattempo il colera aveva fatto breccia nel Paese. Io iniziavo a sentirmi poco bene, ma con la mia amica Laura – una dei tre volontari di Chipata, colei che condivideva il mio fardello fin da Malpensa – ci eravamo regalate un viaggio per le vacanze proprio in quell’isola che avevamo visto insieme dall’oblò dell’aereo: Zanzibar. Dopo due voli cancellati e tanti altri disguidi, un’altra Luna Piena ci accoglieva sull’isola, nella quale avremmo festeggiato il Natale, il compleanno di Laura, e il Capodanno, con dei fuochi d’artificio davanti all’Oceano e un bagno all’alba dentro le sue acque. Il primo dell’anno sarebbe stato un po’ diverso, con me e Laura a una med clinic dell’isola, dato che io continuavo a stare davvero poco bene ormai da una settimana: ma “The show must go on”, e avevo provato a tenere duro fino al ritorno a Lusaka. Anche lì, mentre l’epidemia di colera diventava di giorno in giorno più triste e allarmante, in ospedale non si capiva cosa avessi, ed è cominciata la prima fase di down non solo fisico ma anche emotivo. Stare così male fisicamente mi ha fatto dubitare tante volte, in quelle lunghe e buie settimane, del senso di quest’esperienza e della mia forza e voglia nel farcela: mi chiedevo perchè dovessi cacciarmi sempre in cose così difficili e pesanti e chi me lo facesse fare, ogni singolo giorno. Volevo restare, ma era tutto così faticoso e il mio corpo e la mia mente erano stanchi, arrivati al limite. Peraltro, si stava concludendo il progetto con i bambini di strada, che era la mia principale fonte di motivazione, e tanti altri piccoli problemi del quotidiano iniziavano a ingigantirsi in questa perdita complessiva di senso. Ormai a metà esperienza, ero infatti diventata consapevole di ciò che amavo del mio lavoro e di ciò che mi dava meno soddisfazione: preferivo avere la possibilità di percepire il mio contributo al cambiamento, sia attraverso il lavoro sul campo, sia attraverso la stesura di progetti per cercare nuovi fondi, mentre mi spegnevano attività più statiche. Tuttavia, il colera aveva bloccato le attività sul campo, io ero deabilitata e avevo bisogno di tempo per recuperare forze, e il progetto che richiedeva più mansioni in prima linea stava volgendo al termine.

Fortunatamente, a metà gennaio sono riuscita a reperire alcune medicine che mi hanno aiutata a stare meglio, grazie alle quali mi sono aggrappata alle ultime energie rimaste per portare a termine il progetto assieme alla mia Olp (responsabile) e al team locale, e ciò mi ha donato la motivazione per andare avanti. Inoltre, su consiglio (di cui solo dopo ho apprezzato il valore!) della mia referente per il servizio civile in Italia, avevo già concordato con la mia Ong un rientro intermedio in Italia per metà febbraio, per via di alcune mie patologie croniche: la prospettiva del rivedere i miei cari è stata essenziale nell’affrontare un periodo così duro. Tuttavia, sapevo che il ritorno a casa avrebbe avuto un forte impatto psicologico –per il quale ero infatti stata a lungo reticente a riguardo – ma non immaginavo quanto travolgente esso sarebbe stato. 

I giorni in Italia hanno riempito il mio cuore di gioia e amore, e mi hanno ricordato quanto fosse bello non sentirsi soli. La solitudine è un’emozione con la quale si impara a convivere, nell’anno di servizio civile, anche quando si è circondati da persone, eventi, attività e situazioni, poichè si tratta di qualcosa di più viscerale: è una vera e propria mancanza di intimità nella connessione con l’altro da sè, l’impossibilità di spiegarsi e raccontarsi all’altro, e l’impossibilità di riconoscersi mentre si cambia. Tutto muta, e diventa difficile comprendere come questo avvenga, dunque l’incontro sembra impossibile. Finché non ci si scontra con la necessità di incontrare, per primi, sé stessi: uno dei miei compagni di avventura ama la metafora del lupo cattivo e del lupo buono – ebbene, durante quest’esperienza, si avrà molto a che fare col primo, e la lezione che la profonda solitudine che si vive ci insegna è quella di imparare ad amarlo e integrarlo in noi. Ad oggi, credo che rimanga uno degli aspetti più difficili dell’anno di servizio civile: non i problemi di salute, non la mancanza di acqua o elettricità, non le migliaia di invasioni di scarafaggi o le possibili incomprensioni con colleghi o coinquilini, ma questo sì, senz’altro. È per questo che, tornata dalla mia overdose d’amore in Italia, la solitudine è stata più forte che mai, e ho dovuto imparare la lezione – che rimane in verità un work in progress e fa male ogni giorno un po’ di meno. 

Mentre la imparavo, però, erano ricorrenti pensieri che mi facevano desiderare –stavolta, realmente– di mollare. Quella voce urlava sempre più forte nella mia testa, ed è lì che sono successe due cose: la prima è che ho incontrato nuove anime meravigliose lungo il mio cammino, anime che, di nuovo, mi hanno fatto venir voglia di restare – restare davvero. La seconda è che ho cercato, insieme alla mia fantastica Olp, una soluzione proattiva per risolvere la mia insoddisfazione sul lavoro, una volta concluso il progetto che avevo tanto a cuore – una soluzione che mi consentisse di bilanciare lavoro sul campo e in ufficio e visitare le sedi dei nostri progetti anche nel resto del Paese. Ciò mi ha ridato speranza e tutto si è finalmente e magicamente riallineato. 

In realtà, uno dei periodi più belli della mia esperienza è arrivato proprio subito dopo la tempesta emotiva che avevo attraversato. Ho ricominciato a lavorare sul campo in maniera ancora più assidua e attiva di prima, collaborando allo sviluppo di nuovi programmi di studio dei bambini che frequentano uno dei nostri centri in un compound della città, e scoprendo così nuovi lati di me e delle mie passioni. Nel tempo libero, col nuovo gruppo che si è creato, abbiamo continuato a visitare il Paese, fuggendo talvolta dal caos della città e isolandoci sulle rive di laghi o fiumi, in luoghi da sogno che chissà se e quando mi capiterà di rivedere. Con i compagni d’avventura che mi hanno accompagnata fin dall’inizio, invece, ho visitato invece una delle meraviglie del mondo, le cascate Vittoria, e ho pianto di gioia tutto il tempo come una bambina. Abbiamo scoperto ogni giorno un nuovo angolo di questo stupendo Paese, che non smetterà mai di sorprendermi, e delle fantastiche persone che lo abitano, di cui mi stupisce ancora l’ospitalità e la disponibilità ad aiutare il prossimo in ogni situazione. Con questa straordinaria famiglia zambiana abbiamo festeggiato tutti i nostri compleanni – veri o inventati, pur di celebrarli insieme – e percepito un fortissimo senso d’unione legarci nel profondo. Abbiamo cercato nuovi modi di volerci bene e vivere insieme, provando a trovare sinergie quando non sempre era facile far coesistere energie così forti, e ci siamo riusciti. Abbiamo creato, insieme, altri ricordi che saranno scalfiti per sempre dentro di noi. 

Poi, sono cominciate le prime partenze: quelle che pensavamo essere solo comparse nella nostra vita erano ormai chiaramente diventate personaggi principali, ed era per loro tempo di andare. Ogni saluto ci lasciava una sensazione di vuoto e malinconia difficile da colmare, nonostante la consapevolezza (o, quantomeno, la speranza) di rivedersi al ritorno. E ogni volta, diventavamo più consapevoli che i prossimi saremmo stati noi. Quando questo pensiero è diventato reale, tutto ha cominciato a scorrere a una velocità difficile da spiegare: accelerata ma rallentata allo stesso tempo. Volevamo assaporare ogni secondo, ma tutto sembrava sfuggirci dalle mani. Avevamo già preso e dato così tanto, eppure pareva esserci molto altro che non avevamo ancora fatto. E poi proprio ora! Ora che avremmo proprio potuto considerare di rimanere. Erano questi, i pensieri comuni che affollavano le nostre teste – era così per tutti noi. Che beffardo, il tempismo. Ma con me alla fine si era sempre rivelato giusto e provavo ogni giorno a ricordarmi di riporre fiducia nel futuro, e un po’ di speranza nella geografia dei piani dell’universo.

Certo, mentre queste emozioni creavano scompiglio succedevano tante cose meravigliose: il mio primo viaggio in Sudafrica, i pinguini di fronte all’Oceano, i due Oceani che si incontrano, la tanto attesa visita ai miei compagni d’avventura a Chipata. Ma si avvicinava il momento in cui sarebbero stati gli altri a salutare me – a salutare noi. Si avvicinava e, nonostante la consapevolezza, non diventava più facile: rimaneva un capitolo aperto, che sentivo di non poter chiudere prima di metabolizzarlo, una volta riscritta la bozza in terra natia. 

Chi sarei stata? Che forma avrei dato a quei pezzettini uguali di un puzzle che avrebbe composto un’immagine così diversa da quella nella quale prima sapevo riconoscermi? A quei pezzettini che questo Paese e quest’esperienza avevano così delicatamente e allo stesso tempo così brutalmente rimesso insieme? Dove li avrei collocati? Sarei mai tornata a Lusaka? Non sapevo dare una risposta a queste domande, il giorno in cui sono stati gli altri a salutare me. Sapevo solo di essere piena di amore dato e ricevuto e di averci visto bene, con quell’ultima paura della lista – quella di non voler andare via: “And if I don’t come back / I mean, if I get sidetracked / It’s only ‘cause I wanted to / I’m keeping up with the moon on an all-night avenue”.

Cristina Rapagnà
Zambia

Mi sono candidata per un progetto che indicasse la strada ai viandanti. Un progetto dove si marcano gli alberi con vernice bianca e rossa per indicare che si è sulla strada giusta; dove si piantano i pali della segnaletica per rassicurare che la cima è a sole due ore e il paese a valle a tre; dove si formano le guide escursionistiche e i soccorritori alpini per fare in modo che la via possa essere sicura.

Io, però, ho a lungo brancolato nel sottobosco in cerca di segni, anche quando forse c’erano già.

Come tutti i pellegrini, ho iniziato guardando la cima dalla base della montagna, un po’ spaventata dalla lontananza, ma incantata dalla sua bellezza; cosciente del fatto che avrei fatto fatica, avrei imprecato a volte per essermi imbarcata in questa camminata stancante, ma abbastanza sicura di avere la giusta preparazione e il giusto equipaggiamento. Lenta, ma inesorabile, mi prendono in giro i miei amici quando andiamo a fare escursioni. A me sembrava di essere lenta e basta.

Va capito che ci vogliono pause, bevi un po’ d’acqua, guardi il panorama attorno, fai due chiacchiere con i tuoi compagni. Anche se ti rosica, a volte serve chiedere a qualcuno di prendere qualcosa che porti nello zaino, per renderlo più leggero. Così facevamo “agli scout”, così è servito un po’ rispolverare questa conoscenza.

Questo anno in Kosovo è servito per perdermi, inaspettatamente. Perdersi fa un po’ paura, ma ti dà anche la possibilità di metterti alla prova, di scoprire sentieri nuovi, di affidarti a chi trovi nel bosco e – se sei fortunato – di spuntare in una vallata ancora più bella di quella dove avresti dovuto arrivare.

Questi ultimi mesi di attività in montagna mi stanno ricordando che per ritrovare la strada a volte la devi creare ed è una gran fatica. Ma poi ti giri indietro e vedi che tutto quello zappare e quel rastrellare hanno creato una strada per qualcuno, e quel qualcuno sei anche tu.

Mentre mi perdevo, ho avuto però una gran certezza: che il Kosovo potesse considerarsi casa. Forse un concetto un po’ stridente per chi di questo Paese non sa molto e lo associa solo a una indefinita guerra che forse è ancora in corso. È un posto a modo suo accogliente, che potrebbe benissimo avere come slogan “adottare soluzioni punk per sopravvivere”.

Un Paese dove l’odore di pane, legna bruciata e smog sono il sottofondo aromatico fisso; dove la bellezza delle montagne quasi selvagge si scontra con la spazzatura volante e la cementificazione progressiva; dove le persone sanno essere molto pigre e disorganizzate ma anche determinate e curiose. Abbiamo avuto il privilegio di esserci quando il Kosovo ha finalmente ottenuto la liberalizzazione dei visti – prima quasi impossibili da ottenere – per poter permettere ai suoi cittadini di essere perlomeno turisti in Europa e potersi ricongiungere con i classici parenti che vivono all’estero, la famosa diaspora.

Come spesso succede, la chiusura forzata porta le persone a essere estremamente curiose del diverso, interessate nei confronti dello straniero, desiderose di informarsi e capire del mondo quello che si può tramite Internet e libri. I kosovari sono così, per me. Asciugoni (come spesso venivano definiti dopo un’interminabile conversazione in cui loro parlavano per tre quarti del tempo), esagerati, Albania-centrici, un po’ vanitosi, ma con tanta determinazione nell’essere “come gli altri”.

Vedono l’estero come un modello da seguire, non si capacitano che – almeno per me – su certe cose abbiamo solo da imparare. I kosovari sanno bene che perdersi fa parte della vita e con qualche soluzione punk al punto giusto ci si può creare strade inaspettate.

Benedetta Sala
Kosovo

È una calda mattinata di fine settembre. Sono in Libano ormai da un mese, ma ancora non mi sono abituata all’umidità di questo Paese, sembra che l’estate non voglia terminare. Devo ammettere che ho sempre amato questo periodo dell’anno ma, per la prima volta, non vedo l’ora che finisca: visti i notevoli problemi con l’energia elettrica non abbiamo l’aria condizionata, il ventilatore funziona a intermittenza, oltre al fatto che l’umidità è altissima e non c’è un filo d’aria. Questo mi ha fatto subito riflettere su come cambiano le prospettive in base ai comfort che si hanno…

Per fortuna, però, da oggi per un paio di giorni ci spostiamo ad Hasbaya, piccola cittadina nel sud del Libano, che in teoria dista circa un’ora e mezza di auto da Beirut, ma nella pratica il tempo di percorrenza è sempre diverso. Questa è infatti un’altra variabile che non avevo mai considerato e che invece qui conta molto: il traffico. Spesso e volentieri, quando sono in Italia e ho un appuntamento, parto poco prima dell’orario di ritrovo, insomma il tempo necessario per raggiungere il posto. Qui non è assolutamente fattibile, bisogna sempre calcolare mezz’ora in più rispetto al tempo di percorrenza necessario, nonostante le distanze chilometriche siano brevi, perché per strada può succedere di tutto.

Oggi andiamo a intervistare i contadini che hanno partecipato a un progetto CELIM sull’olio d’oliva, che sta per terminare. Appena arriviamo negli uliveti, percepisco una pace immensa, interrotta solo dal suono delle cicale. Poi, ci accoglie un uomo, di cui rimango piuttosto incuriosita. È vestito con l’abito nero tradizionale e il copricapo bianco: mi sovviene subito ciò che avevo letto sulla varietà religiosa del Libano, è sicuramente druso. Felice finalmente di conoscerne uno, mi rivolgo a lui per presentarmi porgendogli la mano, ma vedo che lui sorride e si ritrae, battendosi il petto come in segno di riconoscenza. Scopro quindi che i drusi non danno la mano alle donne, ma si rivela comunque una persona molto aperta al confronto.

Con il mio arabo elementare provo dunque ad abbozzare una conversazione, facendogli domande generali sul suo lavoro, e scopro che anche lui ama le zucche e le coltiva. Gli mostro le foto del mio orto e delle mie piantine, dicendogli che, purtroppo, quest’anno non riuscirò a tornare a casa per assaporarle. Allora, in tutta gentilezza, mi fa segno di seguirlo e me ne porta una delle sue: io rimango spiazzata dalla felicità, lo ringrazio molto e gli dico che, se è buona, tornerò a fare un bel risotto per lui e la sua famiglia.

Finite le interviste torniamo alla guesthouse, dove alloggiamo tutti insieme quando veniamo qui. Condividere l’appartamento con qualcuno mi è sempre piaciuto, anche se mi mette un po’ d’ansia il fatto che in questo caso non siano semplici coinquilini, ma colleghi, nonostante mi senta già molto a mio agio con tutti. Nel complesso è stato un primo mese molto bello, ma intenso, penso di dovermi ancora ambientare, per ora fare la spola tra Beirut ed Hasbaya è piuttosto stancante, sia fisicamente sia in termini di organizzazione personale – per le uscite o semplicemente organizzarsi col cibo e i vestiti da portare.

Nel giro di una settimana scoppia il conflitto tra Israele e Hamas.

Ad oggi, non siamo più potuti tornare ad Hasbaya, e io mi sento in colpa per essermi lamentata per  cose così piccole, problematiche inesistenti, quando ora invece farei di tutto per poter essere lì. Mi chiedo anche se quel contadino druso avrà iniziato a fare l’orto, e se pianterà ancora le sue zucche dalla buccia lucente, o se la situazione attuale l’avrà prevenuto dal farlo… pensare il raccolto rovinato dal cambiamento climatico è stato frustrante per me e mio padre, ma pensare che il suo possa essere rovinato dai missili… è semplicemente disumano e ingiusto.

Da questa esperienza ho davvero iniziato a guardare le cose, anche le più semplici, da una prospettiva diversa, e ad apprezzare la vita “lenta”, abbracciando l’incertezza dell’oggi e del domani.

Debora Vezzoli
Libano